Di Veronica Proietti
“La grande svolta fu quando si decise di dipingere, solo di dipingere. Il gesto sulla tela significò un atto di liberazione dal valore politico, estetico e morale. Distogliendo l’attenzione dal soggetto, rivolgiamo di nuovo lo sguardo verso il medium specifico dal quale trarre ispirazione, vale a dire superfici, forme e colori”
Clement Greenberg
Greenberg mette l’accento sulla superficie della tela, intesa come luogo della verità in pittura, in contrapposizione all’ illusionismo prospettico della tradizione figurativa; inoltre esaltando gli aspetti specifici del mezzo pittorico induce ad un ritorno alle origini dell’arte.
È questa la parte vitale del post modernismo: non c’è contrapposizione tra pittura figurativa e pittura astratta, ma tutto è concesso, purché si dipinga. Questo scardinamento inizia in America con gli esponenti dell’Espressionismo Astratto, una corrente aperta, che tiene conto della natura e della sua interpretazione decisamente soggettiva.
Attraverso quest’ottica aperta, vengono esclusi i sistemi chiusi dell’arte, evitando di fatto la rigidità delle etichette ma si tende a contemplare tutto il ventaglio artistico di movimenti e stili, dal figurativo all’astrazione, accogliendo una lettura dell’arte omogenea, fatta di influenze migratorie e di richiami; solo attraverso questa cancellazione di generi, può finalmente realizzarsi una sperimentazione aperta che riprende il concetto di un estetica del bello, inteso come bello oggettivo e condiviso, ecco allora che l’arte riacquista il suo statuto di piacere estetico e gli artisti tornano a ripercorrere la strada della tradizione.
Possiamo, dunque, parlare di un ritorno a una concezione “positiva” dell’arte in relazione allo spazio che occupa, che, dopo il 1917 (anno di esordio dell’opera “Fontaine” di Duchamp) aveva assunto una valenza “negativa” e provocatoria. La potenza di impressionare lo spettatore, in queste opere, era proprio il manifestare la potenza del negativo; in questa visione il trasgressivo perdeva il proprio valore scioccante integrandosi pienamente con la realtà ed elevandosi ad opera d’arte attraverso la tensione tra oggetto e lo spazio sacro del museo che esso occupava rimarcando che ciò che rende un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali ma il luogo che occupa.
Tornando invece ad una concezione “positiva” della tradizione artistica, lo spazio può essere di nuovo letto come Vuoto intorno all’ oggetto e il piacere estetico riapparire come un requisito dell’opera d’arte.
Proprio in quest’ottica, Giorgio Mantici presenta un percorso all’interno di questa mostra in cui persiste un legame con la natura figurativa seppur col rifiuto della prospettiva scientifica ma piuttosto utilizzando la prospettiva cinese a volo d’uccello in cui da qualsiasi punto di vista si guarda l’opera, si ha una visione d’insieme perfetta, rimandando all’idea di una continuità di narrazione, ripresa anche dai cubisti, e dall’arte giapponese.
Il richiamo al figurativo è reso attraverso la faticosa eliminazione della descrizione del dettaglio, a favore di una narrazione fatta con il colore. Ritroviamo un lavoro simile al processo di Piet Mondrian: partendo dall’osservazione della natura, dalla riproduzione figurativa dell’albero, si arriva passando per varie fasi di sintesi, all’astrattismo, mantenendo comunque, non solo uno stretto legame con la natura, ma anche l’idea di bello, un bello finalmente moderno.
Ecco dunque che con questa mostra Giorgio Mantici si propone di accompagnare lo spettatore attraverso un bosco in Umbria fatto di forme colorate che compongono una sorta di suite musicale dove le note sono sostituite da quelle forme colorate che alla fine diventano soltanto il colore che ci circonda quando ci troviamo a passeggiare in un bosco colorato, come in un sogno felice.